L'alba di una nuova era…

Sfera e cilindro

Uno dei risultati che diede ad Archimede maggiore soddisfazione fu dimostrare che il volume di una sfera è 2/3 di quello di un cilindro circoscritto.

La tradizione narra che egli chiese che tale scoperta fosse scolpita sulla sua tomba.

Dedurre il rapporto fu un’altra delle intuizioni anticipatrici del genio. Al giorno d’oggi

eseguiamo il calcolo nel modo seguente: il volume di una sfera è quattro terzi moltiplicato pi greco moltiplicato il raggio della sfera elevato al cubo ed il volume di un cilindro circoscritto alla sfera è pari alla superficie della sua base.

È facile verificare che il volume della sfera è pari a 2/3 del volume del cilindro circoscritto. 

Per comprendere l’essenza della parabola in sé,possiamo dire che tutto ciò che riflette da essa, provenendo dall’infinito, passa per il medesimo punto (fuoco).

Una definizione di parabola che giace su un piano potrebbe essere la seguente :

qualsiasi linea retta (che passa per la porzione concava della parabola) incidente sulla parabola e parallela all’asse della parabola, viene riflessa (l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione): tale componente riflessa passa attraverso un punto, il fuoco. Il fuoco è quindi un punto in cui si concentra tutto ciò che proviene dall’infinito.

A occhi chiusi

Sorridevo.
Sognarla
mi rendeva felice.
D’altronde
era l’unica cosa
di cui non potevano privarmi.
Correvo
e seguivo le mie ambizioni.
Il mio futuro era lì
non potevo raggiungerlo.
Si può immaginare un futuro
che non potrà mai avverarsi?
Non ho nemmeno un presente.
Sogno di riprendere in mano
ciò che mi appartiene.

Essere liberi
è un diritto
ed esserne privati
è disumano.
Eppure sto in silenzio.
Non posso ribellarmi,
firmerei la mia condanna a morte.
Ma ciò non mi spaventa.
Preferisco morire
per difenderla
che viverne senza.

Sogno la mia libertà,
ma di nascosto.
Non voglio che qualcuno
mi rubi la speranza…
Sorgerà il sole
ma mancherà la luce a questo nuovo giorno.

Libertas est in anima hominis
La libertà è nell’animo dell’uomo

Post Mari nostri expugnationem,

 Romani nostram Galliam capturi sunt.

 Nostram terram defendemus,

 ut insatiabilem Romani sititm retineant.

 Puto nos magno cum honore pugnaturos esse.

 Bellum vincemus.

 Assiduam Romanorum victoriam componemus.

 Audaces sitis.

 Nostrae mulieres Romanorum ancillae non fient,

 nostri pueri a Romanis non occidentur, noster populus non domabitur.

Pro Gallia pugnabimus.

 Pro nostra libertate pugnabimus!

Grazie a mia madre, che mi fece studiare, non dovevo sporcarmi le mani ma piuttosto aguzzare l’ingegno, tutto per me era molto più semplice.
Ero nell’elite del lager, e guardavo quella polvere di gente vagare inerme, ormai priva di ogni speranza.
Ero profondamente infastidito da tutti coloro che si erano “spenti”e quasi automatizzati nei pensieri e nei movimenti, certi di aver compreso il proprio destino, quasi in attesa del suo compimento.
Apprezzavo, invece, e apprezzo ancor oggi le anime inquiete, in uno stato di incertezzacontinua, che non si piegano a questo regime, e tra i “liberi”, a cui più di frequente la mia mente ritorna, uno spicca fra tutti: il 5334.
Frammentari dettagli rammento: quegli occhi vispi che trasmettevano ancora una flebile speranza. Una volta gli parlai e l’unica parola che mi rivolse fu un saluto e il suo nome: Lous Kaplam. Subito fummo interrotti dalle sirene, accennò un sorriso e si allontanò e non seppi più nulla di lui.
Oggi, 25 ottobre 1946, dopo la mia solita passeggiata mattutina, ho visto tra i volti spenti della gente quegli occhi vispi. Era lui, ne sono certo. Lous Kaplam.

– Nonno, vorrei conoscere la tua “vita” nel campo di concentramento, raccontami come sei sopravvissuto alla shoah.

– Caro nipote, quella che sto per raccontarti è una storia vera che non bisogna dimenticare. Quando chiudo gli occhi quelle immagini di crudeltà mi riaffiorano nella mente. Mi ricordo che al momento dell’arresto ero rifugiato, insieme al mio amico Antonio, in una grotta da circa un mese e stavamo nelle condizioni più estreme. L’arrivo delle SS ci colse di sorpresa. Dentro i vagoni, stavolta, c’eravamo noi.

– Come fu il viaggio?

– Il viaggio fu lungo e difficile, eravamo dei numeri; uomini senza dignità, ci trattavano come merci. Io fui separato alla partenza dal mio amico Antonio. Una volta saliti sulle tradotte tedesche iniziò la nostra estraneazione dal mondo, ci sentivamo a poco a poco “dall’altra parte”.

– Quanti eravate nei vagoni?

-Nel nostro vagone eravamo 50 persone. C’erano vecchi, bambini, donne, mamme, tutti esseri “inutili” agli occhi dei tedeschi.

– Quanto durò il viaggio?

– Il viaggio durò solo 10 giorni, ma per noi furono secoli e ognuno li viveva come poteva; e spesso congedandosi dalla vita.

– Che sensazioni hai provato?

– Nel mio animo, come negli animi di tutti, viveva una certa speranza data dalla insufficiente conoscenza del futuro. Questa speranza manteneva nel nostro cuore il pensiero del ritorno, che si opponeva al pensiero della morte certa.

– Cosa accadde quando siete arrivati a destinazione?

– A notte tarda, nel decimo giorno, il treno si fermò e capimmo che eravamo arrivati. Le porte si aprirono e davanti a noi trovammo la nostra nuova “vita”.

– E poi cosa accadde?

-Ci fu ordinato di scendere. Le SS ci smistarono; tutti fummo separati dai nostri cari. I figli furono strappati alle loro madri.

– Come è stata la vita nel campo?

– Fu durissima. Tutti i giorni vedevo andar via i miei “nuovi amici” e sentivo che si avvicinava il mio turno. Il destino fu benevolo con me e mi fece incontrare ancora Antonio, ma un giorno toccò andar via anche a lui e così il destino ci separò nuovamente.

– Hai mai perso la speranza di un ritorno?

-No, la mia speranza del ritorno non moriva mai, anzi mi teneva in vita. Il destino mi ha dato la possibilità di tornare a casa.

– Grazie, nonno, per avermi raccontato la tua triste esperienza. Scusami se ho rievocato il tuo ricordo ma ho capito davvero che la dignità e la libertà non devono essere negate a nessun essere umano.

L’amico perduto

Era il 15 ottobre 1935 e come al solito Sulley, bambino ebreo, scese le scale di casa sua per andare a giocare con il suo amico.

Ma quello non fu un giorno come tutti gli altri. Giunto a casa di Friedrich, il suo amico tedesco, notò subito che qualcosa era cambiato, ma nonostante tutto gli chiese di continuare la partita del giorno prima.

Friedrich non si mosse. Sembrava che non lo ascoltasse. Sulley insistette; finalmente Friedrich rispose: – Né oggi, e nemmeno domani, possiamo giocare. -Perché?.

E Friedrich: Perché la mamma ha detto che delle leggi ci impediscono di essere amici come prima -.

Sulley tornò a casa rammaricato. Per la strada continuò a pensare a tutti i bei momenti passati insieme al suo Friedrich e si chiese come una semplice legge avesse potuto cambiare o addirittura cancellare una così profonda amicizia. Per una settimana Sulley si recò a casa dell’amico, ma puntualmente veniva allontanato. L’ottavo giorno Friedrich che aspettava ugualmente che l’amico venisse a trovarlo, si recò a casa sua, ma non vi trovò nessuno.

Andò allora a chiedere informazioni ad una vicina di casa: da lei venne a sapere che il suo amichetto ebreo era stato deportato nel campo di concentramento di Auschwitz.

Appena apprese la notizia Friedrich improvvisamente fu colto da un forte rimorso. Fu come se, in quel momento, un pezzo di anima gli fosse stata strappata e fosse partita con l’amico a cui tanto aveva voluto bene, e con cui aveva condiviso infiniti bei momenti. Non c’era sera che non pensava al suo amico: – Che fine ha fatto? È rimasto con i suoi genitori o è stato separato? Cosa penserà di me?-.

Erano tutte domande che gli balenavano nella mente ogni qualvolta si trovava a riflettere: che ingiustizia!!!

Cosa avrebbe potuto fare per Sulley?!

Negli anni seguenti cominciavano a venire fuori le crudeltà che si consumavano dei campi di concentramento, come veniva calpestata la dignità delle persone. Ogni volta per Friedrich era una pugnalata al cuore: doveva fare qualcosa in memoria del suo amico altrimenti mai avrebbe potuto trovare pace. Circa trent’anni dopo, Friedrich diventa il capo di un’importante associazione che si batte per i diritti umani. Quei diritti che più volte, anche troppe, durante la storia dell’uomo sono stati violati, calpestati e ignorati. Possiamo essere liberi solo se tutti lo sono.

 Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il vagone più fortunato”.

In queste poche righe è racchiuso lo scopo di quell’orribile sterminio. Riuscire a schiacciare la dignità di quella povera gente. Poche sono state le persone tornate a casa, ma pur essendo vive la loro esistenza è stata comunque distrutta e con essa tutte le loro speranze e i loro desideri …

E che dire invece di tutte quelle persone che non sono più tornate nelle loro case? Che non hanno più rivisto i loro familiari? Non le conosciamo, non sappiamo chi erano, i loro sogni nella vita, i loro affetti, le loro paure… Possiamo immaginarle come delle ombre, delle figure incognite… Si sono trovate da un giorno all’altro catapultate nel loro inferno senza poter nemmeno rendersene conto. Tutto di loro è stato distrutto: dalla loro dignità fino ad arrivare alla loro vita.

Proviamo per un attimo a metterci nei loro panni? Cosa avremmo potuto fare al loro posto? Magari potremmo pensare che sicuramente avremmo reagito, ma c’è un momento in cui di fronte a queste situazioni la rassegnazione e la consapevolezza sotterrano quel barlume di speranza che si dice dovrebbe essere l’ultima a morire. È allora che ci convinciamo del fatto che ogni singolo gesto sia del tutto superfluo e attendiamo inermi il nostro destino.

Questo è quello che succedeva durante lo sterminio, ma se proviamo a guardarci intorno possiamo benissimo accorgerci che è tutto ciò che succede ogni giorno, davanti ai nostri occhi. Tutta la guerra che si sta combattendo uccide tanti innocenti: non è solo una morte fisica, ma una morte interiore, la morte della loro anima e con essa la morte della loro dignità.

 

Dopo aver compreso a fondo ciò che si intende per diritti umani e prendendo spunto da autori come Primo Levi con “Se questo è un uomo” e Tacito con “Agricola”, la nostra classe è stata divisa in cinque gruppi, di cui quattro formati da cinque persone e il rimanente da sei.

Ogni gruppo di lavoro ha prodotto un elaborato, fatta eccezione per uno che ne ha scritti ben due, di cui uno in lingua italiana e l’altro in latino. Questi prodotti sono poi stati presentati durante l’incontro conclusivo, alla presenza delle altre classi.

foto a caso on PhotoPeach

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Ecco i titoli:

  1. Riflessione (testo riflessivo)

  2. L’amico perduto (racconto)

  3. Discorso di Vercingetorige (testo in latino)

  4. Testimonianza sulla shoah(dialogo tra un nonno e un nipote)

  5. 5334 (monologo)

  6. Ad occhi chiusi (poesia)

Tacito nacque nella Gallia Narbonese nel 55 d.C. e visse sotto vari imperatori, in ordine cronologico, Nerone (appartenente alla gens Claudia), Vespasiano, Tito e Domiziano (tutti e tre facenti parte della gens Flavia).
Questo autore trascorre la sua vita in un periodo di crisi nel quale lo storico non ha libera espressione, dato che deve misurare tutto ciò che dice per non andar contro il “princeps”, cioè l’imperatore. D’altro canto, essendo storico non può riportare il falso.

Tacito è ritenuto lo storico per eccellenza dopo Sallustio.
Nel 98 d.C pubblicò due monografie:
-La Germania;
-L’Agricola, a cui abbiamo fatto riferimento per quanto riguarda i diritti dell’uomo.

In entrambe le opere si parla di popoli con cui Roma ha avuto dei contatti.
L’Agricola è definita una “laudatio funebris”,poiché è un opera che esalta le doti di una persona defunta, nel caso specifico del suocero dell’autore, Giulio Agricola, uomo fedele a Roma con solidi principi.

L’Agricola è suddivisa in quarantasei capitoli in particolare:

-dal I al III vi è il proemio;
-dal IV al IX si parla della carriera politica di Giulio Agricola che culmina nella carica di governatore della Britannia ottenuta nel 78 d.C;

-dal X al XVII viene fatto un excursus di carattere etnografico sui britanni;

-dal XVIII al XXXVIII sono trattate le campagne militari di Giulio Agricola;

-dal XXXIX al XLIII l’autore fa una polemica contro Domiziano che richiama Agricola a Roma, poiché in quel periodo i generali costituivano un problema: un comandante, infatti, portando a compimento con successo varie campagne militari poteva essere eletto imperatore e quindi vi era un conflitto di interessi tra questo e l’imperatore in carica. Nel caso specifico Agricola era stato inviato in Britannia per conquistare terre e proprio quando cominciò ad avere maggior successo fu destituito dall’incarico;
Sulla morte del suocero girano molti “rumores”(voci di corridoio) infatti si pensa possa essere stato avvelenato dallo stesso imperatore;

-dal XLIV al XLVI Tacito esalta il governo di Nerva e Traiano e un elogio finale al suocero.

Statua di Gneo Giulio Agricola

Degni di nota sono l’introduzione (nella quale l’autore lancia una dura invettiva contro l’abbandono delle virtù nella Roma imperiale) e il celebre passo del discorso pronunciato da Calgaco (capo dei Caledoni), mentre incita i suoi soldati prima della battaglia del monte Graupio (cap. XXX),di cui abbiamo preso visione traducendo il passo seguente:
«Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.»
«Predatori del mondo intero, i Romani, dopo aver devastato tutto, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati né dall’Oriente né dall’Occidente, gli unici che bramano con pari veemenza ricchezza e miseria. Distruggere, trucidare, rubare, questo, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, lo hanno chiamato pace.»
(Publio Cornelio Tacito, La vita di Agricola, BUR, Milano, trad.: B. Ceva )

Seguendo i canoni della storiografia drammatica antica, Tacito costruisce un discorso in cui mette in bocca a Calgaco una dura accusa verso l’avidità e l’imperialismo romano.
Tanto famoso è questo brano da rendere proverbiale la locuzione: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.
In realtà però Tacito non era a priori contro l’espansione dei confini dell’impero (anzi, negli Annales rimprovera a Tiberio la politica di non espansione); piuttosto era critico verso l’atteggiamento di sfruttamento delle popolazioni conquistate e quindi contro la violazione dei loro diritti umani, detto in termini più moderni.